NYC Icons
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Nessuna metropoli al mondo racconta se stessa come New York.
Immensa. Verticale. Frenetica. Colorata.
L'idea geografica della libertà.
New York è l'infinito poliedro delle immagini e dell'immaginario.
Sogno degli emigranti e approdo di ogni artista.
E' una città che vive anche negli occhi di chi non vi è mai stato.
Come se il suo skyline fosse l'orizzonte di ogni pensiero umano.
Il luogo dove lo spazio ed il tempo giocano con l'acciaio ed il vetro.
La scacchiera in cui fluttuano i destini di milioni di persone.
New York magnetizza lo sguardo e attrae l'obiettivo.
Smarrirsi è facile in quel perenne mutamento.
Così la macchina fotografica diventa lo strumento per fermare, magicamente, quell'immenso monolite e per cercare il frammento di verità di un tempo e di uno spazio in perenne movimento.
Lorenzo Matassa
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Ogni cosa che è New York
Le città si sostanziano delle forme dell’abitare, materiali ed immateriali, permanenti ed effimere.
Le città sono fatte di mattoni e di cemento, di tetti e di vetrine, di gente che lavora, che vive una pausa o che si sposta. Di squarci di cielo, di luce obliqua al tramonto, di alberi come variazioni ai marciapiedi, di insegne e di finestre.
Le città si guardano dal mare, dai ponti, dagli aerei.
Le città sono raccontate e si raccontano. Filtrano attraverso scenari per supereroi da cartoon, racconti minimalisti od affreschi generazionali. Frammentate e riassemblate, connotano film d’autore o b-movies, serie tv di culto o storie poliziesche riciclabili. Diventano soggetto espressivo della pittura moderna. Materiale narrativo pregnante, fatto di esterni ed interni, dettagli e visioni d’insieme, luci e stagioni.
Le città non solo sono ricoperte da una pelle multiforme di immagini, le città diventano immagini esse stesse, e come tali si staccano, si spostano, viaggiano nel nostro immaginario personale e collettivo. Si annidano in noi come una nostalgia, come la voce di un sax da chissà quale scantinato, quale stanza, quale ricordo di una pièce teatrale.
Così che pensiamo di conoscerle anche se non ci siamo mai stati.
Se penso a New York, la prima cosa che mi arriva è una sensazione composita di attrazione e confidenza, estraneità ed indefinita ansia. Lasciando fluire le immagini, si susseguono i flash in bianco e nero della Manhattan di Woody Allen e delle foto di Robert Frank, i rossi e i gialli dell’autunno al Central Park, il laghetto senza più le oche nell’inverno ghiacciato del Giovane Holden, gli scorci e le facciate di Hopper, le sue stanze e personaggi silenti, le bottiglie di birra nel sacchetto di carta marrone, il venditore di hot dog e i poliziotti, le volenterose relazioni tra aperitivi e scarpe glamour di Sex and the City, la gente che ferma un taxi o che fa jogging al parco, le facce e i nomi di tutti i colori, le code agli spettacoli, Times Square come Shangai di notte, le cuspidi del Chrysler e gli appuntamenti sull’Empire.
King Kong, gli interni altoborghesi sulla Fifth, i portieri gallonati, Ground Zero e l’impatto infinitamente moltiplicato dei due aerei sulle Torri, la griglia di strade e la loro numerazione, le scale mobili del metro, un uomo che corre, le gallerie d’arte trendy, l’intellettuale e il tipo strambo, l’aria di mare che sale lungo l’East River, il Bronx, le sopraelevate, i barboni, Brooklyn che cambia pelle. Luoghi comuni, nel senso letterale, certamente parziali, ma anche icone, realmente costitutive di Ogni cosa che è New York. (1)
L’aura, la promessa immaginaria di un luogo, costruita dal nostro bagaglio di evocazioni e contenuta già nel nome, a volte non regge all’incontro e sembra essersi dissolta chissà quando e come. Delusione sperimentata non solo da Proust, maestro di evocazioni, ma probabilmente da molti di noi.
New York vista per la prima volta conferma l’immagine mentale pregressa, portata con sé insieme al bagaglio materiale. Come in un avvolgente deja vù, la città risponde a prima vista all’aspettativa. Prototipo nell’immaginario collettivo della metropoli occidentale, comunica comunque con forza la propria individualità, potremmo dire la propria personalità: Il suo valore iconico è dilatato, potente. Molto più potente della maggior parte delle altre realtà urbane, europee o mondiali.
E’ attraverso la forza delle sue icone che lo straniero, viaggiatore o turista, stabilisce un rapporto. Gli mancherà la conoscenza intima che sedimenta e si aggiorna nell’abitare stabile o nella frequentazione quotidiana, ma vivrà una diversa forma di privilegio percettivo.
Quanto l’abitante stanziale vive appieno la città e quanto pienamente il pendolare ne gode la bellezza?
Chi ci vive e la ama, riconosce le scritte sui muri e le connessure del marciapiede, conosce il tabaccaio dell’angolo e la commessa del drugstore, ma va anche ad affacciarsi da un ponte o a rivedere il Museo di Storia Naturale.
Chi ogni giorno la raggiunge per andare al lavoro, l’attraversa avanti e indietro, leggendola da sotto, attraverso le stazioni del metro e la loro caratterizzazione, attraverso i nomi, che anche in questo caso si caricano di valenze immaginifiche.
In quest’opera l’occhio del fotografo ci restituisce Il privilegio percettivo, l’impatto sensoriale e mentale dall’esterno con la città più iconica del pianeta. Ognuno di noi può, attraverso di essa, confrontarsi con la propria immagine di New York, virtuale o personalmente vissuta.
Le fotografie di Valerio Marchese sollecitano riflessioni sulla Grande Mela come soggetto urbano e sulla città in generale, sul nostro rapporto con essa come luogo da abitare e sui modi in cui farlo.
Strade, materiali, grafica, campionario umano. Sopra e sotto. Colori e ombre.
“…Il suo passo, i suoi ritmi e momenti, il modo in cui accelera e rallenta, l’arco compreso tra l’alba e il tramonto, fra il tramonto e l’alba, e i segmenti in esso contenuti e il loro continuo succedersi, a dar forma a un fluido insieme…”
Attenzione formale, scelte minimaliste, un bianco e nero controllato e giocato sulle profondità tonali; soggetti colti con rapidità ma che appaiono isolati in un loro mondo. Questi gli elementi distintivi che abitualmente emergono nell’opera dell’autore. Qui lo vediamo sospendere i percorsi consueti della propria ricerca ed immergersi in un contesto diversamente e incessantemente coinvolgente. Disponibile al confronto con una realtà urbana sovrabbondante, assume e fa propri elementi compositivi che in qualche modo da essa scaturiscono: il colore come componente di alta valenza espressiva, materiale esso stesso, dotato di valore autonomo. I rari mossi. Aperture stilistiche atte a cogliere la poliedricità e le sfaccettature, la forza vitale, la dinamicità, la vitalità di quella che ci piace definire la città fluente. (2)
Patrizia Campanella
1 Jack Kerouac, dall’introduzione a Gli Americani di Robert Frank.
2 Mario Maffi, New York, ritratto di una città, Odoya 2010