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LO SGUARDO ELUSO
MANNEQUINS
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Parola evocativa Le ricordo: esili creature, aggraziate e spersonalizzate, stampelle viventi sulle passerelle e negli ateliers, prima di evolversi in top models estremamente iconiche e individualizzate. E come bambole spersonalizzate erano nati, i manichini. Alla fine del Settecento il manneke, piccolo uomo in olandese, si francesizza in piccole schematiche strutture di legno con testa femminile, vestite delle ultime creazioni alla moda in scala ridotta, e spedite dalle sartorie parigine alle Corti europee ed alle Signore facoltose d’Oltroceano, a solleticare vanità e sollecitare ordini. Parallelamente i manichini avevano conquistato taglia e fattezze umane, funzionali alla confezione degli abiti e - con la nascita del prêt-à-porter - alla loro esposizione statica. Un’armata inoffensiva aveva popolato le vetrine affacciate sulle strade ed i nuovi spazi dei Grandi Magazzini. Inoffensiva ma inquietante, con un imprevisto potere fascinatorio. Rimasti soli nel buio dopo l’orario di chiusura, cominciano presto a gistiche. Commessi innamorati rapiscono di nascosto il loro oggetto del desiderio, facendone una silenziosa compagna di vita. Architetti moscoviti, fulminati dalla donna di cera nella vetrina di un barbiere, incarnazione di un ideale femminino vagheggiato, cercano disperatamente la sua omologa in carne ed ossa.
Silenziosamente conquistano un posto nel nostro inconscio personale e collettivo, compiendo così una seconda invasione, non fisica ma mentale. Gli abiti li relegano in secondo piano, riducendoli ad una funzione. Ma spogliati ridiventano sé stessi: creature parallele, dai lineamenti mimetici o alieni. Enigmatici e destabilizzanti. Un nostro doppio che è altro da noi. L’opera fotografica di Valerio Marchese ha spesso ellitticamente alluso alla presenza umana tramite quelli che ho definito ‘oggetti sostitutivi’. Qui gli oggetti non sono più puramente tali e non ci sostituiscono, ma diventano soggetti, appartenenti ad una sorta di specie aliena, a noi parallela. Il “Corpus” fotografico che abbiamo di fronte, ed uso il termine corpus per letterale assonanza, estrae queste creature dalla banalità della loro funzione, le sottrae allo sguardo distratto e le restituisce ad una percezione più inquietante. Il loro prendere forma in volumi e superfici essenziali trova corrispondenza e singolare concordanza nella cifra stilistica minimale e rigorosa che contraddistingue queste fotografie ed il loro autore. L’occhio del fotografo lavora su una lunghezza d’onda sensibile ed allertata, affascinato dalla rivelazione di un’emanazione silenziosa ma potente. Il suo sguardo stana la loro ambigua natura e li porta ad una espressività che essa vorrebbe negare.L’enigma metafisico si moltiplica, le vetrine, i magazzini, i retrobottega acquistano la valenza delle piazze dechirichiane. Uno spazio che risuona di un acuto silenzio. Uno spazio che anche quando interagisce con l’ambiente urbano, quando si contamina con i riflessi del mondo reale, mantiene la propria vibrazione, l’eco attutita di una metarealtà. E noi di qua dal vetro guardiamo ed anche se il ”loro” sguardo è assente o rivolto ad un altrove inconoscibile, avvertiamo la strana sensazione di essere osservati.
O forse si tratta soltanto di un rispecchiamento consciamente negato, ma che lavora nel nostro io profondo. Questo slittamento, questo interspazio percettivo è intensamente interpretato e trasmesso dalla controllata drammaticità tonale delle immagini. Si è creata una tensione sottile, nata da una nuova evanescente relazione. Da un rispecchiamento eluso, così come dal loro sguardo che il nostro elude.
Patrizia Campanella
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THE ELUDED
GAZE
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MANNEQUINS
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I remember them: slender creatures, graceful and depersonalized, living hangers on fashion catwalks and ateliers, before evolving into highly iconic and individualized top models. And mannequins were born as depersonalized dolls. At the end of the sixteenth century the manneke, small man in Dutch, morphs into French and into small schematic wooden structures with female heads, dressed in the latest fashion creations in small scale, and sent by Parisian tailors to the European Courts and to the wealthy overseas ladies, to excite their vanity and solicit orders. At the same time mannequins had gained human size and shape, functional for the tailoring of garments and – with the advent of prêt-à-porter – for their static display. A peaceful army crowded the shop windows overlooking the streets and the new spaces in the Department Stores. Harmless but disturbing, with an unexpected fascinating power. Alone in the dark after closing time, they soon begin to fill the fantasies of writers and film makers. Shop assistants in love secretly steel the object of their desire, making it a silent life companion. Moscow architects, stunned by the wax woman in a barber’s shop window, incarnation of a longed-for feminine ideal, desperately search for her alike in flesh and blood. They quietly gain a place in our personal and collective unconscious, acting out thus a second invasion, not physical but of the mind. The clothes consign them in the background, reducing them to a mere function. But undressed they regain their selves: parallel creatures, with mimetic or alien features. Enigmatic and destabilizing. Our double but different from us. Valerio Marchese’s photographic work has often alluded elliptically to the human presence through what I have defined as “substitute objects”. Here the objects are no longer merely what they are and do not replace us, but become subjects, belonging to a sort of alien species, parallel to ours. The photographic “Corpus” in front of us, and I here use the word corpus for a literal assonance, disengages these creatures from the triviality of their function, abstracts them from casual glances and returns them to a disquieting perception. Their taking shape in essential volumes and surfaces finds correspondence and singular accordance in the minimal and strict stylistic code that distinguishes these photographs and their author. The photographer’s eye works on a sensitive and alert wave length, fascinated by the revelation of a silent but powerful emanation. His gaze drives out their ambiguous nature and leads them to an expressiveness that it would like to deny. The metaphysical enigma multiplies, shop windows, department stores, back shops acquire the emotional force of De Chirico’s squares. A space echoing an acute silence. A space that even when it interacts with the urban environment, when it gets contaminated by the reflexes of the real world, keeps its own vibration, the muffled sound of a meta-reality. And we on the other side of the window look, and even if “their” gaze is absent or fixed on an unknown elsewhere, feel the strange sensation of being stared at. Or perhaps it is just a consciously denied mirroring, but one that works in our deep self. This shifting, this perceptual interspace is intensely interpreted and conveyed through the controlled tonal drama of the images. A subtle tension has been created, arisen from a new evanescent relationship. From an eluded mirroring, as well as from their gaze which ours eludes.
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Patrizia Campanella
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Mannequins
Giorgio De Chirico, padre della Metafisica, diceva a proposito dei manichini che sono condannati “ad una immobilità che rimane sul piano del grande, dell’eterno, là dove si puó girare l’angolo dello sguardo e pensare il tempo alla rovescia”. L’artista fece di essi un’icona della sua opera volendo probabilmente rappresentare l’inadeguatezza, l’incongruità dell’uomo rispetto al mondo che lo circonda. Il manichino dechirichiano è l’emblema di un uomo essenziale, privato della sua anima e della sua stessa fisicità, immobile ed enigmatico.
Citare De Chirico è doveroso perché, a mio avviso, nulla è più metafisico di un manichino, anche quello su cui cade il nostro sguardo distratto nella vetrina di un grande magazzino. Nella poetica del maestro, influenzato anche dalle suggestioni del pensiero di Nietzsche, l’immobilità è solo frutto di un errore di prospettiva della visione che, se modificata (nel suo caso attraverso l’intervento creativo del pittore), consentirebbe il paradosso di poter apprezzare in un oggetto solo apparentemente inanimato, una ritrovata umanità.
Come fotografo più che sulla documentazione il mio interesse si è concentrato sul valore metaforico dell’immagine, sulla sua forza evocativa che trascende l’interpretazione letterale, sul descrivere l’altrove, ciò che si colloca al di fuori del fatto in sé . E’ forse per questo mio approccio che il tema dei manichini, anche se già indagato, mi è parso ancora particolarmente attuale ed intrigante.
Il palcoscenico in cui gli attori si muovono è quasi sempre la vetrina di un negozio, dove si viene a creare una netta divisione degli spazi: mondo esterno, reale - da un canto - luogo/non luogo dei manichini dall’altro. Questi due universi paralleli separati solo dal sottile diaframma di un vetro, sembrano obbedire a logiche spazio-temporali diverse. Ed è difficile dire chi osserva e chi è osservato, chi giudica e chi è giudicato.
Il gioco dei riflessi sul vetro provoca, inoltre, suggestive commistioni tra i due ambienti, degli sconfinamenti non autorizzati dalle rispettive zone di appartenenza. I loro corpi sensuali amano forti contrasti e timbri di luce caravaggesca, che ne esaltano la dimensione surreale e la fierezza. Con i loro volti levigati e alieni sembra vogliano raccontarci arcaici segreti. Non sappiamo cosa pensino, ma forse, come suggerisce Renato Zero, hanno “solo voglia di provare nella pelle di un uomo come si sta”.
Valerio Marchese
Mannequins
Giorgio De Chirico, the father of Metaphysics, when speaking about mannequins said that they are doomed “to an immobility that remains on the plane of the great, of the eternal, where you can turn the corner of the eye and think time backwards”. The artist made them an icon of his work, his intention was probably the representation of man’s inadequacy, his inconsistency compared to the world around him. De Chirico’s mannequin is the emblem of the essential man, deprived of his soul and of his own physicality, immobile and enigmatic. I think that quoting De Chirico is a must because nothing is more metaphysical than a mannequin, even the one on which we rest a casual glance in the shop window of a department store. In the poetics of the master, also influenced by the suggestions of Nietzsche’s thought, immobility is but an error of vision perspec - tive which, if modified, (in his case through the creative work of the painter), would enable the paradox of appreciating in an object that is only apparently inanimate, a rediscovered humanity. As a photographer my interest, rather than in documenting the object, is concentrated more on the metaphorical value of the image, on its evocative force that goes beyond the literal interpretation, on describing the elsewhere, that which is placed outside the fact itself. It is probably due to this particular approach of mine that the mannequin theme, although already investigated, seems still particularly present and intriguing. The stage on which the actors move is nearly always a shop window, where we can find a clear division of spaces: outside world, real – on one side - the mannequins place/non place on the other. These two parallel universes separated only by a thin glass diaphragm, seem to obey a different space-time logic. And it is difficult to say who is observing and who is being observed, who judges and who is being judged. The play of reflections on the glass causes, moreover, suggestive mixtures between the two environments, unauthorized trespas - sings from their respective areas of belonging. Their sensual bo - dies long for strong contrasts and Caravaggesque hues of light, that enhance their surreal dimension and pride. With their smooth and alien faces they look as if they want to tell us archaic secrets. We do not know what they are thinking, but perhaps, as Renato Zero suggests, they only “want to see how it feels to be in a man’s skin”.
Valerio Marchese
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